Guardami negli occhi

Guardami negli occhi
a cura di Raffaella De Pasquale e Alessandro Bazan
con un testo di Vito Chiaramonte

25 ottobre - 10 novembre 2019

Letizia Battaglia, Alessandro Bazan, Marcello Buffa, Rita Casdia, Gaetano Cipolla, Jennifer Corio, Zoltan Fazekas, Francesco De Grandi, Kuutti Lavonen, Antonio Miccichè, Giusva Pecoraino, Vito Stassi, Rossana Taormina

Nuvole presenta una selezione di opere nelle quali lo sguardo è protagonista. Nel guardare queste opere che ci osservano scopriamo espressioni di aiuto, di paura, di amore, di protezione, di sfida..… siamo portati a riflettere sul fatto che lo sguardo è comunicazione, è fenomeno sociale, è vita più di ogni altra parte del corpo. Ma si chiede e ci chiede Vito Chiaramonte, che nel suo testo ragiona a partire dall’opera di Mark Tansey, The innocente eye test, 'cosa è guardare negli occhi un’immagine che ci osserva?’. Lasciamo al tempo dell’osservazione la possibilità di una risposta. D’altra parte "il guardare è una cosa così strana e meravigliosa della quale sappiamo ancora tanto poco; … guardando siamo interamente rivolti verso l’esterno, ma proprio quando lo siamo di più riconosciamo l’accadere del nostro animo, comprendendolo solo piano piano, da lontano, sotto il segno di una cosa che un attimo prima era ancora estranea, e un attimo dopo è già trovata estranea.”(Rainer Maria Rilke, lettera alla moglie Clara, 1907).

Di Miceli

The innocent eye test, Mark Tansey

 

Testo di VITO CHIARAMONTE

Immaginiamo che nella sala di un museo sia portato giù il monumentale De Stier (Il giovane toro) di Paulus Potter (1647, al Mauritshuis di L’Aia). Di fianco al grande dipinto secentesco resta alla parete, nella sua dignitosa cornice, uno dei covoni di Monet (con tutta probabilità quello innevato del Museum of Fine Arts di Boston). La scena prevede che la sala del museo si trasformi in un laboratorio, e si popoli di camici bianchi e distinti uomini occhialuti, esperti di certo delle reazioni che una mucca debba o possa esprimere di fronte alla mucca dipinta, la madre del giovane toro di Potter. Una mucca in una sala di museo, di fronte a un dipinto appena svelato, può destare qualche preoccupazione. Ma c’è anche lo scopettone per pulire. The innocent eye test di Mark Tansey (1981, al Metropolitan di New York) racconta questa storia con l’intento di deridere il successo anni ottanta della tradizione accademica da una parte, e simmetricamente di ragionare sul mito dell’occhio innocente, della percezione pura (e naturale) dell’immagine, di contro alla percezione intesa come atto culturalmente connotato. Per i teorici questo è il punto: cosa vede un occhio innocente nell’incontro con uno sguardo dipinto? Se l’occhio innocente non vede nulla (Gombrich, Goodman) neanche l’occhio del bovino che guarda la tela dipinta è innocente, oppure l’innocenza dell’occhio consiste proprio nel fidarsi della rappresentazione pittorica. E tuttavia nessuno saprà mai cosa vede la mucca, se vede se stessa, se vede un’altra mucca, se vede un dipinto che raffigura una mucca (la più improbabile delle ipotesi).

E allora, cos’è guardare negli occhi un’immagine che ci osserva? Cosa significa puntare gli occhi in un Velazquez? Il gioco di sguardi sarebbe letale senza ironia (Giusva Pecoraino, I frutti del pensiero, tecnica mista). La non innocenza dell’occhio sta nel suo essere sempre vittima del passato, o del tempo. L’occhio è per certi versi la vittima predestinata del tempo. Il suo sacrificio, così ancestrale, resta fuori dal campo visivo, osceno: nel gesto semplice dell’offerta è visibile lo scarto di un commovente surrogato (Zolta Fazekas, Matticuc, fotografia). L’osservazione e l’immagine sono cariche di tempo, di livelli, di fraintendimenti, di sovrapposizioni, di memorie (Kuutti Lavoven, Ruggero, litografia), cariche di una elettricità cairologica che può ambire alla descrizione cronachistica, alla registrazione dell’istante che possa contenere il senso delle cose e delle presenze (Antonio Miccichè, Helsinki h 09:13, matita su carta) che soltanto l’oblio assoluto potrebbe detonare. L’innocenza dell’occhio sarebbe, allora, come una demenza assoluta in grado di disperdere ogni traccia mnestica (tranne se stessa, tuttavia). E di certo cancellare un’opera è lasciare un segno. Non se ne esce. 

Guardati dalle immagini come presenze personali (Jennifer Corio), guardinghi anche, oppure voyer, oppure complici dell’immagine nel momento del suo costituirsi solo per noi, in una paradossale seduzione (Marcello Buffa, Miele amaro, olio su tela), il nostro sguardo sembra interrogare l’immagine come se fosse tenuta e rispondere, ma ormai in una sorta di allucinazione-distorsione del mito di Narciso, come mito fondativo dell’immagine, in cui lo stagno è l’iPad (Gaetano Cipolla, 2019).

Ma potrebbe non essere questa la direzione della carica elettrica. Forse quella opposta. L’immagine ci guarda, ci interroga dal suo spazio mitico popolato di archetipi (Francesco De Grandi, Giovanni Battista, olio su tela) e di epiche narrazioni da fumetto o da memoriale pop (Alessandro Bazan, Sguardo perso, olio su tela), e prevede che sia nel nostro sguardo che debba scovarsi una nuda verità (Letizia Battaglia, Serena – Funerali di Pio La Torre, fotografia); o che un arco riflesso possa manifestare una vita minima stupita (Rita Casdia, Double worm), o che nel confine ambiguo fra veduto e vedente possa starci la soglia della perdita di senso, della pura domanda che può assumere il biancore di una forma ferita, o di una mancata benda (Rossana Taormina, Still life).

È anche in questa chirurgia dello sguardo che l’innocenza dell’occhio è per sempre perduta. Forse socchiudere gli occhi, consentire alle immagini di arrivare al velo lacrimale, perdere appena il fuoco, restarci ancora per un tempo indefinito, scoprirne le fattezze di un idolo ancora ignoto (Vito Stassi, Light, tecnica mista su tela) è l’unica difesa possibile.

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